Run fast, live fearless

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Dunque circa 2 mesetti fa mi sono tatuatata codesta frase sul piede.

Non so se tuttora questo tatuaggio sia fonte solo di scossamento testa da parte di mio padre, che ad oggi pensa ancora che il tatuarsi sia una delle cause principali della diffusione dell’AIDS nel mondo (Così, tanto per ricordarvi che gli anni ’90 ce li portiamo sempre un po’ dentro, insieme a Philadelphia e a Tom Hanks) o sia anche fonte di riflessione per me.

Nel senso: io manco so se ci ricorrerò fast. Per ora mi sento più un cavallo zoppo messo nella stalla, di quelli che si tengono lì perché sai che sono di razza buona, ma di fatto non sai se ci tirerai mai più fuori un granché.

A parte questo, devo dire che per assurdo, mi sto accorgendo che la chiave di volta di tutto, è sempre pensare a quel “Live fearless”, che a me piace proprio tanto. Non perché mi senta particolarmente coraggiosa, o impavida. Ma solo perché ogni volta che penso che qualcosa mi blocchi, alla fine mi capita sempre l’occhio lì e mi dico che tutto andrà per il meglio. Perché poi nella vita bisogna anche alzare il gomito ogni tanto, sfanculare le paranoie e prendersi le cose come vengono (e magari ringraziare anche, se le cose ci vengono, anche se sono alla cazzo di cane!).

In sostanza, dopo essermi dovuta fermare nuovamente in piena preparazione maratona (Milano e Boston) mi sono sparata una decina di giorni ferma. Quando ho ripreso, la settimana scorsa, la sola vista del cronometro mi faceva venire il vomito. Perché poi il tuo cervello non è stupido, e ti chiede:

“Ecchecazz, mi hai fatto fare tutta ‘sta fatica per 10 giorni, e ‘mo sei di nuovo da capo? Ehnno, ma non se ne può più!” E un po’ c’ha ragione, il ragazzo.

Che di due mesi fatti fitti, fitti a correre rispettando giorni di palestra, allenamenti alternativi di nuoto, ecc ecc. tirarne fuori un ennesimo stop, proprio non ci voleva e non si può sentire.

Così anche ieri, dopo essermi sparata una chance-prova per vedere se tenevo un lungo (25K), mi sono guardata il piede, mentre sotto la doccia effettuavo il metodo di recupero alla Gigi (“Vai di acqua fredda, tipo ghiaccio, vedrai come ti metti a posto – esticazzi Gigi, certo che mi metto a posto, mi trovate così anche tra 100 anni probabilmente, con il getto dell’acqua fredda mentre mi doccio in una soleggiata domenica di Marzo).

Run fast. Ha-ha. Anche no. Avevo la testa che al 23esimo km diceva: “rallenta, rallenta, che tanto hai già dato”. Vabbè, comprensibile. Le gambe erano un po’ in sbatti e ai Giardini ero pronta a fottere una bicicletta con le ruote a uno dei tanti marmocchi che giravano spensierati, pur di tornare a casa su un mezzo.

Live Fearless. Eh. Sì, quello. Cosa vuol dire? Voleva dire che avevo preso le mie decisioni per questo 2014. Che avere coraggio era prendere delle decisioni. Portare a termine gli impegni di Milano e Boston, senza avere la polvere di stelle sotto i piedi, ma soprattutto prendere coscienza che la prossima maratona poi sarà nel 2015. Perché le corse sono più belle se uno se le vive in pace, senza infortuni. E’ più bello se si riesce a mettere nella condizione di farcela. È più leale con sé stesso e non ci sono più alibi per nascondersi “Ah, ma mi sono fatta male”.

Perciò ora si veleggia così. Con la testa alta, le gambe basse. In mente una maratona preparata (daddio!) nel 2015.

E mia nonna Gemma che scossa la testa dicendomi che sono una vera galeotta con quel tatuaggio sul piede.

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